PENSIERI DI VIAGGIO

Il trekking a Karpathos è nato dalla voglia di trovare la montagna anche al mare e dal desiderio di vedere il mare anche in montagna. A Scarpanto ci siamo lasciati condurre da una guida tedesca, viaggiando su un auto noleggiata da Gatoullis, o più esattamente, il figlio di un soldato italiano dell’ultima guerra, e abbiamo preso in affitto una stanza da Eva, anziana signora tornata a Karpathos dopo lunghi anni trascorsi in California.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

Eva ci ha raccontato di essere stata lei a far incontrare Clint Eastwood e la attuale moglie, a far incontrare Reagan e Gorbaciov, regalandoci l’illusione che la vita e il futuro possano essere nelle nostre mani, offrendoci dalle mani tremanti, le uova sode della Pasqua. Così cinema e realtà, guerra combattuta e guerra fredda, passato, presente e futuro si sono mischiati in questa piccola isola del Dodecanneso, meno isolata dal mondo, di quanto possa apparire.

E le uova hanno, si potrebbe proprio dire, benedetto anche l’inizio della nostra piccola traversata dell’isola. A Lefkos, il nostro punto di partenza, dove siamo arrivati in un taxi guidato da un giovane karpatiota fidanzato con una ragazza di Milano perché gli intrecci sembrano non finire mai sull’isola, nella campagna di

Ímeri, aspettando che ci preparassero la stanza, ci hanno offerto di nuovo uova e biscotti. Il vecchio contadino ci ha raccontato di come quell’orto e quella casa si animino d’estate di turisti, per lo più italiani.

 

 

 

 

 

 

 

Sotto l’ulivo c’è una tenda e là il camper e la sera arriva il profumo della cena, spaghetti naturalmente. E il mondo entra così nelle narici di quest’uomo dedito alla campagna che ci ha servito la cena, apparecchiando un unico tavolo, al centro della stanza dove d’estate siedono in tanti. Non eravamo però soli, ci facevano compagnia due foto antiche della madre e del padre sul camino, e poi al fresco sotto una finestra con le ante aperte alcune forme di formaggio, riparate sotto un telo di lino. E veniva il desiderio di farsi formaggio, essere accuditi e respirare il fresco sotto il telo di lino.

 

E’ di qui che la mattina successiva siamo partiti, per la traversata a piedi e con lo zaino, e capire che fonti, fontane,  fontanelle e cisterne sono modi diversi per ingabbiare l’acqua, ma come sempre le cose possono essere le stesse e apparire diverse: “eingemauerte Quelle” o semplice fontanella. Su sentieri, lastricati e no, carrarecce, stradelli, stradine, strade asfaltate, carrozzabili e sterrate siamo arrivati a Messochori, tappa intermedia, dove alla  taverna ci hanno subito presentato un vecchio che aveva fatto le scuole durante l’occupazione italiana e ci ha parlato in un elegante italiano, venato da un leggero accento veneto, dichiarandosi un prodotto del colonialismo. Messochori vuol dire orti e frutteti con il mare in fondo, e poi non dimentichiamo che è stata Pasqua e per Pasqua si fanno i botti, come testimoniano le cartucce sui gradini della chiesa. Più avanti il piccolo cimitero, tra frutta e fiori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco comparire sul crinale ventoso ciò che resta dei famosi mulini di Karpathos. Spoa è un paesino davvero piccolo, le sistemazioni scarseggiano (solo due stanze in una taverna) ed è qui che abbiamo incontrato una coppia di tedeschi che ci hanno svelato il segreto per viaggiare sull’isola: dormire nelle cappellette sparse qua e là.

 

 

Noi invece abbiamo dormito su due lettini di crine in una stanza - ripostiglio di tante coperte, con l’interruttore della luce dentro l’armadio - e il bagno esterno, sul ballatoio, in pratica quello dell’osteria, con relativo via vai di avventori. La mattina siamo usciti dal paese in direzione del cimitero, fino ad un casotto con tante capre e una vecchia che ci ha indicato la strada, sì il sentiero passa proprio sopra, a fianco del tetto. Poi un colle scosceso, fitto di sterpi che nascondevano il sentiero e battuto dal vento, con alle spalle la vista su Spoa e la costa sud-occidentale. Attraversando piccole selle siamo arrivati su un pianoro dal quale sembravano scendere diversi sentieri, e non era chiaro quale ci avrebbe portato sulla strada sterrata che collega Spoa a Olymbos.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se pensavamo che il tratto sulla strada sarebbe stato riposante, noioso magari, ma riposante, ci sbagliavamo. La strada, che corre lungo il crinale della montagna, è esposta a tutti i venti con un bellissimo panorama sui due versanti. Respirare è difficile, procedere pure, a volte anche mantenere l’equilibrio. E il vento alza la polvere della sterrata. Per mangiare ci siamo riparati contro un contrafforte della strada.

 

 

 

 

Dopo tanta polvere, abbiamo finalmente lasciato la strada, girovagando un po’ prima di trovare il giusto sentiero, affacciato alto sulla costa occidentale in un paesaggio che tornava ad essere antico e selvaggio tra rocce e terrazzamenti abbandonati che sembravano essere luoghi sacri.

Su uno stretto sentiero, a tratti franato, siamo arrivati in vista delle case più esterne di Olymbos, piccolo paese costruito su una sella, affacciato su due mari ma nascosto dai monti. Abbiamo attraversato il paese fino all’estremo opposto, là dove giunge la strada sterrata e da dove partono i collegamenti via terra (autobus, taxi,auto).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     

L’albergo che avevamo prenotato è il primo che si incontra provenendo dalla strada, uno specie di albergo della posta. L’oste con baffo, occhiali e capigliatura stile anni ’60 (tipo i cugini di campagna) e la moglie, con calze gonna e sottogonna, ci hanno riscaldato una zuppa di lenticchie e preparato delle focaccine niente male. Abbiamo assistito alla vestizione di una bambina con l’abito tradizionale e poi fatto un giro per il paese come due passanti, tali eravamo, che si trovino ad attraversare un palcoscenico, o più palcoscenici, senza sapere di che spettacolo si tratta. Quando ci siamo affacciati sulla piazza, la festa in chiesa era già finita e frotte di donne in festa incrociavano il nostro sguardo per scomparire dentro case illuminate dalle quali giungevano voci e suoni di festa. Ma quale? Un po’ estranei alla festa, come se la piazza fosse il “dietro le quinte” di teatri diversi ai quali non eravamo stati invitati, abbiamo cercato di capire qualcosa...., poi stanchi per la camminata, siamo tornati a casa.

Il giorno successivo il cammino ci ha portato dall’alto di Olymbos a Avlóna, un rettangolo di pianura suddiviso in terrazzamenti, dove il grano ancora verde sventolava. Di qui abbiamo ripreso la strada che scende, in un paesaggio carsico, fino alla spiaggia di Vurkunda, apparentemente vicino ma che non sembra arrivare mai. Stanchi, non siamo scesi alla spiaggia, ma ci siamo fermati accanto ad una cappelletta, riparata dalla roccia, dove l’aria era ferma e tiepida, irreale rispetto al resto. Qui abbiamo piantato la tenda, alle spalle due monti rocciosi e spogli, con in mezzo la valletta coi cespugli rossi e dorati attraverso cui siamo arrivati. A destra della roccia che ripara la cappelletta, il terreno scivola ciottolo dopo ciottolo verso il mare e il tramonto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Poco più avanti, ove il promontorio si allunga verso il mare aperto, c'è un piccolo attracco a mare, dove ad agosto si svolge la festa di San Giovanni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci siamo seduti sotto una tettoia di canne.

Di fronte a noi l’isola di Saria.

Il giorno seguente siamo tornati indietro per la stessa strada e, una volta superati i campi terrazzati, abbiamo preso il sentiero che ci avrebbe condotto a Diafani, il porticciolo di Olymbos, collegamento via mare con il resto dell’isola, il più rapido prima della costruzione della strada. Abbiamo scelto la “strada dei pompieri”: lunga e panoramica perché corre su tutti i crinali.

 
       

Da Diafani siamo dovuti ripartire già l’indomani mattina, approfittando del postale che fa la spola con Picadia, perchè il traghetto di linea Pireo-Rodi sarebbe passato solo dopo un paio di giorni.

 

Marina Omiccioli

 

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