Ferro |
“Una
trentina di noi avevano superato il severo sbarramento dei primi esami, ed
erano stati ammessi al laboratorio di Analisi Qualitativa del II anno.
Eravamo entrati nella vasta sala affumicata e buia come chi, entrando
nella Casa di Dio, riflette ai suoi passi. Il laboratorio precedente,
quello dello zinco, ci sembrava adesso un esercizio infantile, come
quando, da bambini, si gioca a fare la cucina: qualcosa, per diritto o per
traverso, veniva pure sempre fuori, magari scarso di resa, magari poco
puro: bisognava proprio essere degli schiappini, o dei bastiancontrari,
per non riuscire a cavare
il solfato di magnesio
dalla magnesite, o il bromuro di potassio dal bromo.”
“Alle due del pomeriggio, il Professor D., dall’aria ascetica e distratta, consegnava ad ognuno di noi un grammo esatto di una certa polverina: entro il giorno successivo bisognava completare l’analisi qualitativa, e cioè riferire quali metalli e non-metalli c’erano contenuti. Riferire per iscritto, sotto forma di verbale, di sì e di no, perché non erano ammessi i dubbi né le esitazioni: era ogni volta una scelta, un deliberare; un’impresa matura e responsabile, a cui il fascismo non ci aveva preparati, e che emanava un buon umore asciutto e pulito. C’erano
elementi facili e franchi, incapaci di nascondersi, come il ferro ed il
rame; altri insidiosi e fuggitivi, come il
bismuto e il
cadmio.”
“Le
cappe d’aspirazione erano poche; ognuno, secondo le prescrizioni del
testo, nel corso dell’analisi sistematica evaporava coscienziosamente
all’aria libera una buona dose d’acido cloridrico e d’ammoniaca, per
cui nel laboratorio ristagnava in permanenza una fitta nebbia canuta di
cloruro d’ammonio, che si depositava sui vetri delle finestre in minuti
cristalli scintillanti.”
“Attraverso
la foschia, e nel silenzio affaccendato, si udì una voce piemontese che
diceva: “Nunzio vobis gaudium magnum.
Habemus
ferrum”. Era il marzo 1939, e da pochi giorni, con quasi identico
solenne annuncio (“Habemus Papam”) si era sciolto il conclave che
aveva innalzato al Soglio di Pietro il Cardinale Eugenio Pacelli, in cui
molti speravano, poiché qualcosa o qualcuno bisogna pure sperare. Chi
aveva pronunciato il sacrilegio era Sandro, il taciturno.”
“Avevo osservato, con stupore e gioia, che tra Sandro e me qualcosa stava nascendo. Non era affatto l’amicizia fra due affini: al contrario, la diversità delle origini ci rendeva ricchi di “merci” da scambiare, come due mercanti che si incontrino provenendo da contrade remote e mutuamente sconosciute. Non era neppure la normale, portentosa confidenza dei vent’anni: a questa, con Sandro, non giunsi mai. Mi accorsi presto che era generoso, sottile, tenace e coraggioso, perfino con una punta di spavalderia, ma possedeva una qualità elusiva e selvatica per cui, benché fossimo nell’età in cui si ha bisogno, l’istinto e l’impudicizia di infliggersi a vicenda tutto quanto brulica nella testa ed altrove (ed è un’età che può durare anche a lungo, ma termina col primo compromesso), niente era trapelato fuori del suo involucro di ritegno, niente del suo mondo interiore, che pure si sentiva folto e fertile, se non qualche rara illusione drammaticamente tronca.”
“Incominciammo
a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli
alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà
dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era
consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a
Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere
la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per
comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico
di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a
dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie
digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime! Che, se cercava
il ponte, l’anello mancante, fra il mondo delle carte e il mondo delle
cose, non lo doveva cercare lontano: era lì, nell’Autenrieth, in quei
nostri laboratori fumosi, e nel nostro futuro mestiere.”
“Sandro
mi ascoltava, con attenzione ironica, sempre pronto a smontarmi con due
parole garbate e asciutte quando sconfinavo nella retorica: ma qualcosa
maturava in lui (non certo solo per merito mio: erano mesi pieni di eventi
fatali), qualcosa che lo turbava perché era insieme nuovo ed antico. Lui,
che fino ad allora non aveva letto che Salgari, London e Kipling, divenne
di colpo un lettore furioso: digeriva e ricordava tutto, e tutto in lui si
ordinava spontaneamente in un sistema di vita; insieme incominciò a
studiare, e la sua media balzò dal 21 al 29. nello stesso tempo, per
inconscia gratitudine, e forse anche per desiderio di rivalsa prese a sua
volta ad occuparsi della mia educazione, e mi fece intendere che era
mancante.”
“Mi dimostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia. Quale commercio, quale confidenza avevo io avuto, fino allora, coi quattro elementi di Empedocle? Sapevo accendere una stufa? Guardare un torrente? Conoscevo la tormento in quota? Il germogliare dei semi? No, e dunque anche lui aveva qualcosa di vitale da insegnarmi.
Nacque
un sodalizio, ed incominciò per me una stagione frenetica. Sandro
sembrava fatto di ferro da una parentela antica: i padri dei suoi padri,
mi raccontò; erano stati calderai (“magnìn”) e fabbri (“frè”)
delle valli canavesane, fabbricavano chiodi sulla sforgia a carbone,
cerchiavano le ruote dei carri col cerchione rovente, battevano la lastra
fina a che diventavano sordi: e lui stesso, quando ravvisava nella roccia
la vena rossa del ferro, gli pareva di ritrovare un amico.”
“Portava
all’occorrenza trenta chili di sacco, ma di solito andava senza: gli
bastavano le tasche, con dentro verdura, come ho detto, un pezzo di pane,
un coltellino, qualche volta la guida del
Cai,
tutta sbertucciata, e sempre una matassa di filo di ferro per le
riparazioni di emergenza.”
“Mi
trascinava in estenuanti cavalcate nella neve fresca, lontano da ogni
traccia umana, seguendo itinerari che
sembrava intuire come un selvaggio. D’estate, di rifugio in rifugio, ad
ubriacarci di sole, di fatica e di vento, ed a limarci la pelle con dei
polpastrelli su roccia mai prima toccata da mano d’uomo: ma non sulle
cime famose. Ne alla ricerca dell’impresa memorabile; di questo non gli
importava proprio niente. Gli importava conoscere i suoi limiti, misurarsi
e migliorarsi; più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di
prepararmi) per un avvenire di ferro, di mesi in mese più vicino. Vedere
Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo
che gravava sull’Europa. Era
il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il
fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità
silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda. Suscitava in me una
comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano il mio bisogno
di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose che mi
avevano spinto alla chimica. Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli
occhi, dalla portina del bivacco Martinetti, ed ecco tutto intorno, appena
toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella
notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano
un’isola, un altrove.”
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